Una verticale di Lupicaia al Castello del Terriccio.

Data

Quando scrivo che un vino è un viaggio, intendo un viaggio nella memoria, nelle sensazioni di ora e di altri momenti. Attraverso i suoi profumi, il vino è infatti in grado di evocare ricordi, di aprire cassetti della memoria a volte chiusi a chiave. Questa è la capacità di tutti gli odori, non solo quelli del vino, direte. Vero. Ma nella vita si tende a circondarsi sempre delle stesse fragranze: chiedete a dieci donne quante volte cambiano profumo in un anno e nove vi risponderanno “mai”. In cucina, si tende ad usare una gamma ristretta di spezie: se mi piace il curry perché dovrei cambiare? E’ questione di gusto!

Non sempre.

Più spesso è circondarsi di comfort, di ambiente rassicurante, di aromi già conosciuti. Nel caso del profumo personale, è istinto animale di farsi riconoscere con un proprio odore.

Il vino offre l’opportunità di innescare un circuito, di comporre un mosaico nel quale ogni profumo, aroma, retrolfatto è una tessera, apparentemente non collegata alle altre, eppure – nei vini armonici o che sfiorano l’armonia – alla fine ogni tessera va al suo posto e compone la fotografia di ciò che il vino rappresenta, del lavoro del suo produttore, del terroir, della vigna. E il progressivo componimento del mosaico è, appunto, un viaggio intimo, talvolta recondito, nella memoria individuale.

Dalla polvere di caffè che la nonna ti insegnava a mettere nella moka, alle macchie di china sul foglio squadrato; dal manuale dell’università sottolineato a lapis, al primo smalto che ti sei comprata; dalle ciliegie mangiate sull’albero al pepe nero della carbonara a mezzanotte, al vin brulé a fine pista a Canazei, alla gita sul fiume a raccogliere lamponi. Alla morositas durante l’interminabile ora di latino.

E’ un po’ come quei quadri che, se li fissi per diversi secondi, vedi la tridimensionalità. Ecco, il viaggio del vino è questo: se riesci a non fermarti al mero riconoscimento di sentori e aromi, dopo qualche minuto vedi un altro disegno, un altro mosaico.

La verticale di Lupicaia, al Castello del Terriccio, è stata tutto questo: abbiamo percorso uno straordinario viaggio emozionale, accompagnati da annate che hanno dimostrato tensione, freschezza e grande bevibilità.

2001: subito balsamico di eucalipto, che non è solo “mentolato”, ma ha dentro la ricchezza della salsedine della brezza marina e l’aromaticità della macchia mediterranea. Frutto pieno e polposo, ciliegia nera matura, prugna essiccata, giaggiolo. Leggerissima speziatura di cannella, tannino fuso. Ancora fresco dopo vent’anni…

2005: Peperone verde, cuoio. Sottobosco secco, pot-purri di rosa rossa. Il sorso è ricco, eppure il volume è sottilissimo, non ingombrante. Tannino setoso.

2007: evoluzione meno rettilinea delle prime due. Anche qui eucalipto, erbe aromatiche fresche, ciliegia. Legno di sandalo. La freschezza prevale di misura sulle morbidezze. La leggera scia sapida accompagna il finale di creme de cassis e ciclamino selvatico.

2009: concentrato di pomodoro, foglia di pomodoro, avverto meno la parte acida. Muschio, viola mammola. Tannino rotondo.

2011: terra, ginepro, polvere di caffè. E’ la prima annata nella quale il Merlot è stato sostituito dal Petit Verdot, infatti al gusto è meno dolce delle annate precedenti. La lieve nota di resina impreziosisce il sorso. Tannino integrato.

2016: naso strepitoso, bocca incredibile. Succo di melograno, Mon Cheri. Foglia del mirto, chiodi di garofano. Tannino sottilissimo. E’ teso, dritto, fresco. Chiusura sapida, ricca di gusto.

2017: arancia rossa, tabacco. Scatola di sigari, after eight. Cannella. Finale lungo e saporito. Tannino levigato e pieno di gusto.

Riconosco che l’annata 2016 è da considerare la rappresentazione forse più autentica del percorso del Lupicaia. Io ho preferito la 2017: qui le tessere del mosaico sono andate ciascuna al loro posto, perché quell’incontro di arancia, cioccolato e menta è la sintesi di un vino rosso di grande qualità ed armonia.

More
articles