Se dico Val di Non, tu dici “mele!”. Eppure prima di essere il meleto più famoso al mondo, la Val di Non era territorio di viticoltura: Agostino Perini, sul Dizionario Geografico statistico del Trentino, nel 1852 scriveva che in questa Valle “si coltivano le viti con diligenza particolare sui colli sottoposti al villaggio rivolti a mezzodì e difesi dal monte a settentrione”. E’ a questa tradizione che Nicola Biasi si è ispirato per il suo “Vin de la Neu”, con quell’etichetta bianca, per l’appunto, come la neve e le vette stilizzate delle Dolomiti che hanno in comune con il vino la lucentezza vitrea che le rende una meraviglia del mondo terreno.
Mi incuriosiva degustarlo, per i numerosi paradossi che lo riguardano: un enologo visionario che sceglie di coltivare viti in una valle vocata alle mele. La scelta del Johanniter, un vitigno tosto, in Toscana diremmo “ignorante”, che non teme nulla. Praticamente, una donna che indossa il tacco 12 sapendo di dover camminare sui sanpietrini. 832 metri di altitudine. Un suolo più unico che raro: dolomia, sulla quale si sono sedimentati strati di marna e calcare. Composizione sabbiosa a testimonianza di depositi lacustri di origine glaciale. E il paesaggio vallivo che protegge tutto ciò che ci sta dentro con il suo abbraccio materno, e garantisce un clima moderatamente temperato.
Cristallino, giallo paglierino di buona concentrazione, si lascia attraversare dalla luce e la rifrange senza modificarne i toni. Al naso è ampio, dall’impatto molto ricco e variegato. Prima dei fiori e della frutta avverto una potente nota di idrocarburi, che poi però prende ordinatamente posto tra gli altri profumi. E allora arriva tutta la sua terra, la sua origine, con la mela golden non troppo matura, la susina gialla mirabelle e tanto bergamotto, quasi una gelée di limone rigorosamente non zuccherata. L’agrume si mescola ai rilievi floreali freschi di gelsomino e narciso selvatico. L’erbaceo è maturo di fieno e aromatico di timo. Fanno da cornice sottili note di cumino e curcuma, con cenni minerali di salgemma.
In bocca il fruttato diviene croccante grazie alla forza imprimente degli acidi sulle mucose. E’ tutta freschezza vivace, tesa e verticale, che ricorda il ghiacciolo. Agli assaggi successivi, complice il maggior contatto con l’aria e l’innalzamento della temperatura, fuoriescono profumi più dolci di rosa bianca e un aroma di acqua di fiori di arancio mista a grano. Compaiono le prime sensazioni vellutate date dal legno e una leggera scia sapida che resiste nel finale di bocca.
E’ un vino senza cedimenti: fine, armonico, con un bel volume liquido che schiude a una notevole persistenza.
Eccellenza in alta quota, 92.
Abbinatelo con spaghetti con trota affumicata, finocchietto e provola oppure, se cercate l’intensità, provatelo con sarde essiccate di Montisola.