Al pranzo del Castello del Terriccio, lo chef Cristiano Tomei, che gestisce il ristorante Terraforte nella vecchia falegnameria, ha elaborato per noi un menu che rappresenti l’anima della tenuta, pronunciando una frase che insieme è impegno e promessa: con il mio pranzo, vi sentirete a casa.

T’immagini…. Un pranzo di 74 portate, ciascuna delle quali composta da una miriade di ingredienti…

E lui pensa di far sentire a casa me, che quando sono sola mangio il tonno dalla scatoletta. Godiamoci il pranzo di oggi, mi dico, che domani mi tocca la bresaola dal cartoccio.

Entré: Trippa di vitello con ricci di mare. Una persistenza aromatica all’ennesima potenza, che investe la bocca in modo sorprendente e assoluto.

Triglia Terraforte fritta in pastella di crosta di parmigiano: uno scrigno che racchiude spinaci selvatici ed elicriso, accompagnata da una riduzione molto intensa che si sposa in modo eccellente con il Lupicaia 2017.

Zuppa di pesce Terraforte: mazzancolla, triglia, cicala di mare, crostini imbevuti nel cavolo nero e bottarga di Orbetello. La straordinaria sapidità e la pienezza di gusto si prolungano all’infinito, accompagnate da una piccantezza strategica. Tutto è cosparso di piccole gemme di finocchio selvatico che danno sferzate di energia gustativa. I cubetti di pane aromatizzato al cavolo nero hanno una carica aromatica meravigliosa, e la loro tendenza amarognola cela in parte la piccantezza del piatto.

Crema catalana di midollo di bue e ricci di mare servita nell’ossobuco. Affondo il cucchiaino nell’osso cavo, riempito della crema catalana, e subito dopo il leggerissimo crepitìo della superficie, si libera un profumo intenso di mare e terra, come se nel piatto ci fossero stati, insieme, una zolla di terra e acqua di mare.

La catalana nell’ossobuco è accompagnata da Insalata russa di verdure fermentate e affumicate e Cavolfiore marinato nelle vinacce di Castello del Terriccio con grattugiata di nocciole.

Riso cotto nel brodo di fieno e asparagi selvatici. Ci spiega lo chef che non è un risotto, è una minestra di riso, e per questo non viene mantecato ma solo condito con il burro, cui si aggiunge whisky torbato e rondelle finissime di asparago selvatico crudo. E’ un piatto che sa di casa, di cose cucinate in modo semplice, eppure racchiude grande complessità, vegetale dell’asparago e animale del burro, con l’intrigante nota torbata che lo fa uscire dagli schemi.

Pappardelle al cinghiale, che viene cotto, intero, nel tegame di coccio con le tante erbe aromatiche del Castello del Terriccio, spezzato a mano e poi ridotto a ragù per le pappardelle. Quando al ristorante ordiniamo piatti che fanno parte della tradizione domestica, ci troviamo a pronunciare – o a sentir pronunciare – alternativamente due affermazioni opposte:

–           La zia lo fa più buono

–           Eh non c’è nulla da dire, la mano dello chef si sente.

Di fronte alle pappardelle di Tomei non sono in grado di pronunciare nessuna delle due. Nel piatto c’è il ricordo di quello che la zia fa buonissimo, ma c’è anche l’amore di Cristiano per Terraforte, l’amicizia, l’autoironia. Il rispetto di un luogo magico e delle persone che ci lavorano.

Bistecca Pantano maturata 6 mesi: semplice, nuda e cruda, ma con un bagaglio olfattivo (ed emotivo) impressionante. Sento aromi di funghi e sottobosco, sale grosso e fieno. Sento il Tassinaia 2017 che ci berrò insieme al prossimo pranzo della domenica.

Daino aromatizzato al Vermouth, nappato con il Vermouth della marinatura, fondo del daino e aghi di ginepro. Inspiro un tripudio di macchia mediterranea e pineta di mare che accompagnano il boccone soffice.

Tortino al cioccolato fondente e capperi con gelato al latte di mandorla. Ho spezzato il tortino nel mezzo per andare subito al cuore fondente, che ho gustato in una cucchiaiata piena e godereccia, per poi mangiarne un altro e poi un altro. Il cacao amaro e il cappero si fondono in un gusto acutissimo, affilato, che non perdona, eppure ti chiede di gustarlo ancora.

Ponce alla livornese con spuma di caffè: divertente l’idea di racchiudere il ponce in una tartelletta sovrastata dalla spuma di caffè… Peccato per la gelatina. Ci sono due cose in tutto il mondo edibile che non mangio, e una è la gelatina, che ho discretamente scansato senza farmene accorgere dallo chef.

Mentre arrotolo le pappardelle e mi gusto il boccone caldo e saporito, guardo Bettina di fronte a me, scherziamo su ingenui doppi sensi; converso con Vittorio Piozzo alla mia sinistra, che mi chiede cosa ne penso di questo o quel piatto, di questo o quel vino, come se mi avesse salutato ieri sera dicendomi ci vediamo domani. Li ho conosciuti al pranzo di oggi, non li avevo mai incontrati prima. Com’è possibile che siamo tutti così a nostro agio? Poi capisco che Tomei ha tessuto intorno a noi un menu – e un clima – di tradizioni domestiche che ci ha resi confidenti, liberandoci da ruoli e aspettative. Giacinta mi prende in giro mentre scanso la gelatina dal ponce e spuma di caffè, sussurrando “Voglio vedere adesso come fai a dire a Tomei che la gelatina non ti piace…”. E ridono tutti.

Sul termine “nappatura” del daino, Leonardo rivolge allo chef una battuta esilarante, sulla quale tutti scoppiamo in una risata fragorosa…. Eccolo là: da questo momento i commensali potrebbero passare insieme le prossime ore rimanendo al tavolo, di tanto in tanto mangiando e bevendo, a parlare e condividere, e nessuno si annoierebbe. Perché si sentono a casa. Bravo Cristiano, ci sei riuscito.

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