Il culto della progettualità Mauro Sebaste ce l’ha nel DNA, tramandato dalla madre Tersilla Sebaste, vera antesignana di quella cultura visionaria nella quale produrre vino identitario è sinonimo di qualità, ricercatezza, autenticità.
Erano gli anni ’60, epoca in cui le parole “donna” e “vino” coabitavano solo nei proverbi goliardici più o meno coloriti. Ma lei ci credeva, volle fondare un’azienda tutta sua e a suo nome, a garanzia dell’attenzione maniacale per il territorio e per i vitigni. Così, divenne presto la “Dama di Langa”, c’era al contempo qualcosa di confortante nel suo rispetto per le tradizioni e qualcosa di eccitante nel suo strizzare l’occhio alle tecnologie innovative.
Sennonché, “la vita è ciò che accade quando fai altri progetti”: la scomparsa prematura di “Sylla” e le vicissitudini che successivamente hanno investito l’azienda, hanno impedito il compimento di quel progetto.
Eppure il figlio Mauro ha continuato a crederci e, dopo lunghe e dolorose traversìe, ha avuto il coraggio di ripartire da zero, con un’azienda tutta da rifare.
Oggi l’azienda, gestita interamente dalla famiglia Sebaste, cura circa 30 ettari di Olimpo del Nebbiolo: Alba, Serralunga, Barolo, La Morra, Verduno, Vinchio, Diano d’Alba, Montelupo, Mango, Piobesi e Vezza.
Barolo DOCG Trèsüri 2017 14,5%
Il mio professore di filosofia sosteneva che per superare brillantemente l’esame fosse necessario, prima di tutto, sapere bene l’indice del manuale. Ecco, in questo caso il principio calza a pennello: per degustare correttamente questo barolo occorre prima di tutto leggere l’etichetta, e farsi due domande sul nome così buffo (per i non piemontesi): Trèsüri, “tre surì”, assemblaggio di 3 cloni di uve nebbiolo provenienti da 3 vigne con caratteristiche pedoclimatiche differenti per esposizione e temperatura e coltivate su suoli calcarei non omogenei tra loro. Curiosa di vederlo e soprattutto di assaggiarlo, accantono l’informazione sull’assemblaggio.
Nel bicchiere è rubino profondo e compatto.
Al naso arrivano i frutti rossi, che però non esplodono, il frutto rimane compresso, quasi come se anziché fresco fosse essiccato, così come i fiori, in un pot-pourri non stucchevole. Seguono le spezie, soprattutto i chiodi di garofano, il tabacco dolce. Il tannino scalpita un poco, si sente che esce dalla trama e scappa ai lati della bocca. Alla fine, comprendo l’importanza dell’assemblaggio – che in questo caso è una vera opera ingegneristica – dei tre cloni di nebbiolo: le caratteristiche delle singole vigne e dei loro cloni si sono compensate reciprocamente al punto da generare un equilibrio sorprendente.
Barolo DOCG 2017 Cerretta
A differenza del fratello Trèsüri, in questo caso il rubino è meno impenetrabile.
Al naso arriva immediatamente la nota pietrosa, di ferro, che è poi il “primo impatto” classico del nebbiolo, così come del cugino Sangiovese. Il frutto rosso è più aperto, sono protagoniste la ciliegia marasca e l’arancia rossa. Sopraggiungono in sequenza le erbe aromatiche e la scatola di sigari. All’assaggio, la prima cosa che noto, forse perché diversa dal vino precedente, è il tannino integrato: rimane nella trama, non scappa, e così quegli immaginari chicchi di melograno scorrono lungo la bocca senza fuoriuscire dai binari, dal percorso. Il sorso termina con una nota sapida piuttosto marcata e una inaspettata quanto divertentissima freschezza che permane in bocca.
Barolo DOCG 2015 Ghè Riserva
Nel mondo del vino, ci sono “Riserva” che sorprendono. Che son capaci di donare esperienze tutt’altro che aspettate. Ecco, questo è uno di quei casi. All’esame visivo il vino si presenta indubbiamente limpido, di un rubino molto profondo che tende al granato.
Al naso la sorpresa arriva tutta insieme: i frutti scuri non sono essiccati ma freschi e polposi, direi appena colti. Mora, mirtillo, ribes. Dietro ai frutti neri e alla viola e iris arriva un piacevolissimo mosaico di spezie, soprattutto cannella. In bocca la sorpresa del naso è confermata da una deliziosa cremosità di after eight, sarà per quella nota balsamica che arriva direttamente dalla botte di rovere francese dove il vino invecchia per 30 mesi, che si accompagna al retrogusto di cioccolato. Tutto ciò rende il sorso godibilissimo, non ingombrante, che, appunto, per una Riserva è il dono più grande.