Candalla, sogno di una Versilia che non ti aspetti
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Quel naso triste come una salita…”, Paolo Conte risuona alla radio mentre ci inerpichiamo sulla strada che porta a Candalla.  All’improvviso la sensazione di trovarsi ai margini della civiltà svanisce di fronte all’Osteria, che si presenta come un’opera ingegneristica d’altri tempi, un’ardita combinazione di legno e muratura su diversi livelli, abbarbicata sui primi contrafforti delle Alpi Apuane, dominanti silenziose sullo sfondo. Seduti al tavolo, lo sguardo è subito conquistato dal rumore del rio Candalla che, vivace, forma rivoli e cascatelle. La riva opposta ospita il Banana’s Bar, e il pensiero va all’estate, con i tardi pomeriggi tra un bagno e un aperitivo. La giornata però è nuvolosa, le piante di banano ondeggiano ai refoli di vento, ricordando un paesaggio più da sudest asiatico che da Versilia, e per un attimo interminabile le note di “Bartali” si dileguano lasciando spazio all’aria di “Cavatina for strings” da Il Cacciatore. Scaccio d’istinto l’immagine della roulette russa e stringo le mani della mia copilota, per tornare al presente da fiaba che si sta pian piano delineando. Il menu propone piatti della tradizione più o meno reinterpretati, si evince un occhio molto concentrato sulle materie prime, quasi esclusivamente di terra. C’è la classica carbonara (ma con guanciale camaiorese), ci sono i testaroli e i tordelli, l’uovo Parisi e la chianina, il coniglio, il baccalà e la cinta senese.

Scegliamo di iniziare con i testaroli al pesto di sedano e pistacchi e con i tordelli di Camaiore al ragù di cinta e chianina. All’arrivo dei piatti si capisce subito che si fa sul serio: i pistacchi sono interi, non è la solita uggiosa granella. I testaroli offrono un’iniziale resistenza alla masticazione, poi si fondono nel pesto di sedano, con i pistacchi che donano consistenza, aroma e sapidità al boccone. I tordelli hanno un ripieno misto molto fine di carne di manzo e maiale, mortadella locale, borragine, parmigiano, pecorino, uova, timo e noce moscata. Nel ragù (rosso) s’intrecciano cinta senese e chianina in una gradevole macedonia di sedano e carota.  Sale il profumo ancestrale del mazzetto odoroso nella casseruola, ma il gusto diventa subito protagonista: la pasta è tirata bene, col morso il ripieno esce fine e cremoso dissolvendosi nella salsa, la noce moscata non è invadente. Un solluchero anche per i palati più esigenti.

La carta dei vini non è ampissima, ma denota intelligenza e competenza nella selezione: accanto a poche etichette “consolatorie”, buone per tutte le occasioni, si trovano alcuni tra i migliori vini del comprensorio Versilia-Apuane, roba per intenditori. Optiamo per un Degeres 2016 dell’azienda Montepepe di Montignoso, che già qualche mese prima avevamo degustato direttamente in azienda e ci aveva conquistato. In quell’occasione Alberto Poggi, titolare di Montepepe, ci aveva spiegato che i due vitigni che lo compongono, Vermentino e Viognier, fermentano e maturano separatamente in tonneau per 8 mesi, prima di trovare il loro equilibrio nella successiva sosta di 2 anni in bottiglia. Ne esce un vino che già all’olfatto promette tutto in cambio dell’anima: scorza di cedro candita, mora di gelso, elicriso, burro salato, cumino e ginestra, con un leggero minerale di gesso e una sottilissima nota ossidativa. In bocca c’è volume, ma anche la freschezza del lemongrass e della frutta esotica, il finale è lungo, sapido e molto elegante. “E i francesi ci rispettano, che le palle ancora gli girano…” sì, perché se la lunga rincorsa della vitivinicoltura italiana, cominciata circa 40 anni fa, ha portato alla realizzazione di rossi che ormai niente hanno da invidiare a quelli transalpini, per i bianchi sono poche le etichette paragonabili a quelle dei cugini, ma di questo Degeres sentiremo molto parlare. Se un vino bianco di questo livello fosse prodotto in Francia costerebbe almeno il doppio: ti porta in paradiso al primo assaggio e ti ci conduce di nuovo dopo quattro mesi, la magia che sprigiona appaga un “genius loci” trovato e condiviso. La luce che brilla nello sguardo che incrocio al di là del mio calice è più di una conferma.

Per i secondi, abbiamo scelto le polpettine vegane di lenticchie con maionese alla curcuma e la tartare di fassona con pinzimonio. Le prime sono leggere e saporite, più accattivanti se tuffate nella maionese alla curcuma, dolce e delicata. La tartare è “pas dosè”, scondita e smussata, che in bocca crea un connubio esemplare con le verdure in pinzimonio; c’è anche una maionese in accompagnamento, buona ma irrilevante per la riuscita del piatto. Il nostro Degeres è Re anche con i secondi piatti, in particolare con la tartare al naturale, di cui permea la grassezza e tendenza dolce amplificando la succulenza indotta. Concludiamo con la selezione di dolci della casa, tra i quali spiccano un ghiotto tortino di cioccolato caldo e pere, appena assaggiato e subito sequestrato… e la crema di mascarpone con fragole fresche e lingue di gatto, una croccante lusinga di velluto.

Il conto non è esoso, è coerente con l’offerta e la qualità.

Lasciamo Candalla con la sensazione che, appena fuori dalla soglia, alle nostre spalle si chiuda la porta di Alì Babà. Oriento invece il sestante verso la quotidianità, ma una coincidenza – la radio suona Knocking on Heaven’s Door – mi rammenta che il mondo reale è pieno di porte che sono curioso di aprire!

Il sole del pomeriggio comincia a fare capolino nel cielo ostinatamente plumbeo fin dal primo mattino. Dream’s going on…

 

 

Di Luca Carmignani

 

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